Carne coltivata: è la soluzione per ridurre le emissioni di gas serra?
L’attuale sistema di produzione della carne, basato prevalentemente su pratiche intensive, provoca sofferenza agli animali ed è una delle principali cause di problemi di salute pubblica, tra cui pandemie trasmesse dagli animali e resistenza agli antibiotici. Gli allevamenti intensivi sono responsabili delle più alte emissioni di CO2, secondo i dati della FAO contribuiscono per il 14,5% alle emissioni totali di gas serra globali. Le emissioni più alte provengono da ruminanti come i bovini e le pecore.
Solo per dare un’idea: per ogni grammo di proteina, la produzione di manzo genera emissioni di gas serra 8 volte superiori a quelle della carne di pollo. Come mai? La risposta sta nel sistema digestivo. I bovini, essendo ruminanti, producono grandi quantità di metano, un gas serra particolarmente potente. Questo spiega anche perché il maiale, che è grande ma non è un ruminante, genera solo 7,6 kg di CO2: persino meno dei gamberi o del formaggio.
Tutti questi aspetti diventano particolarmente allarmanti se consideriamo che la domanda di carne è destinata a crescere rapidamente con l'aumento della popolazione mondiale, che si prevede supererà i 9 miliardi entro il 2050. Secondo la EAT-Lancet Commission, il sistema alimentare attuale è insostenibile, contribuendo a gravi problemi di salute pubblica e ambientali. Si stima che per nutrire una popolazione in crescita e ridurre le malattie legate alla dieta, è necessario un cambio radicale nelle abitudini alimentari, riducendo il consumo di carne rossa e aumentando il consumo di vegetali, come avviene nel caso della Dieta Mediterranea.
In questo contesto, si inseriscono la ricerca di fonti proteiche alternative (insetti, prodotti plant-based) e la coltivazione di carne in laboratorio. La carne coltivata è ottenuta da cellule animali prelevate tramite biopsia, che vengono poi coltivate in laboratorio in un ambiente controllato. Questo metodo produttivo permette di creare carne senza la necessità di allevamenti tradizionali, riducendo notevolmente le risorse necessarie e le emissioni di CO2.
Tra i vantaggi riconosciuti alla produzione di carne coltivata c’è da un lato la possibilità di eliminare la necessità di macellare gli animali, dall’altro una riduzione notevole dell’impatto ambientale in termini di emissioni di gas serra e utilizzo del suolo e dell’acqua.
Dal punto di vista della salute, invece, la produzione di carne coltivata viene presentata come altamente controllata con verifiche periodiche per garantire l’assenza di batteri nocivi, di allergeni, residui di antibiotici, di ormoni della crescita e di altri fattori.
Le aziende che la producono mirano a sviluppare prodotti superiori alla carne convenzionale, evitando, ad esempio, l’uso di coloranti artificiali o additivi.
Inoltre, potenzialmente il contenuto di grasso potrebbe essere fissato ai livelli raccomandati e i grassi insalubri potrebbero essere sostituiti con i più salutari omega-3. A questo si aggiunge la possibilità di includere ingredienti aggiuntivi come le vitamine.
Gli svantaggi evidenziati nella produzione di carne coltivata riguardano temi diversi che includono la salute, fattori etico/religiosi e di impatto economico.
Entrando nel merito delle diverse questioni viene sottolineato che i benefici ambientali derivanti dalla produzione di carne coltivata dipendono dall’efficace utilizzo dei terreni liberati dal pascolo degli animali da carne. Infatti, uno spostamento significativo dalla produzione di carne convenzionale a quella sintetica, potrebbe causare la perdita di occupazione per molte persone nel settore dell’allevamento, con difficoltà di riallocazione di queste risorse date le competenze specifiche tipiche del settore. Inoltre, il costo elevato del nutrimento necessario alla crescita del tessuto muscolare potrebbe rendere la carne coltivata un alimento costoso, con il rischio di accentuare le disparità economiche tra ricchi e poveri.
Non solo, la liberalizzazione della carne coltivata presenta dilemmi etici per le minoranze religiose, come ebrei, musulmani e induisti, che potrebbero essere d'accordo sulla riduzione della sofferenza degli animali ma si troverebbero ad affrontare le complessità legate alle certificazioni "halal" o "kosher".
Persistono inoltre incertezze sulla sicurezza a lungo termine per i consumatori, con dubbi relativi al rischio di sviluppare tumori e all'accumulo di antibiotici utilizzati durante la produzione che non vengono metabolizzati ed escreti dall’animale stesso.
Infine, da non sottovalutare la questione “sensoriale”. Il sapore della carne è il risultato delle reazioni che avvengono alla morte dell’animale e questo non è facilmente riproducibile in laboratorio. Oltre al sapore, anche colore e texture sono importanti per l’accettazione da parte del consumatore. Tra i rischi, seppur non gravi, c’è quella di sviluppare un prodotto che non soddisfi le aspettative.
Alla luce delle evidenze disponibili ad oggi, riteniamo che sia necessaria ulteriore ricerca scientifica per definire se la carne coltivata potrà essere considerata un valido tentativo per migliorare la salute dei consumatori e allo stesso tempo la sostenibilità ambientale. La tematica resta comunque complessa e necessita di essere affrontata a 360°. Per garantire la salute dell’uomo e del pianeta bisognerà puntare ad un equilibrio tra tanti fattori, come la promozione di una corretta allocazione dei terreni destinati al pascolo e al foraggio, la sensibilizzazione dei consumatori alla riduzione del consumo di carne e l’incremento delle sue fonti alternative (insetti, plant-based foods), la maggiore adesione ai principi della Dieta Mediterranea.
Carlotta Franchi; Francesca Orsini
Laboratorio di Farmacoepidemiologia e Nutrizione Umana - Istituto Mario Negri